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Autobiografia di un pensiero fisso

tecnica mista
Nasco nel 1986, sì, su carta da spolvero è vero, ma sono comunque nata.
Ero fatta di forme opulente e grottesche, ero l’antitesi del mondo anoressico che avevo attorno a me e che in quel periodo era esploso.
Negli anni sono cambiata, in ogni segno ho assunto pose compiacenti, vanitose, tormentate, provocanti, dimesse, indecise, implacabili, ironiche e stupite; accompagnata sempre da croci, cuori neri e immancabili collane.
Sono la sintesi di tutte le donne del mondo, della storia che mi ha preceduto e che ho vissuto.
Sono ciò che ho subito in silenzio, sono ciò a cui mi sono ribellata e sono tutto ciò che ho imparato, con dignità, ad accettare.
Ora sono qui, selezionata fra infinite pose come pensiero fisso, delicatamente posata su sacchi di juta un tempo bisognosi di grano, sacchi ricuciti accuratamente da un’altra me stessa che forse non conosceva cemento.
Sono qui incorniciata come reliquia, una ad una, da merletti usati per ornare gambe polsi e colli di altre me che, con la meticolosa pazienza che non conosco più, a quel tempo ricamavano.
Sono stanca ma, lo ammetto, felice. Nonostante le mie collane che a volte divengono catene, sono invasa da una consapevole soddisfazione: oltre tutto e oltre tutti sono quella che sono, felice della mia diversità’, delle scelte fatte e che farò.
Sono perfettamente consapevole dei miei rossi e del mio viola: ho finalmente accettato il mio dolore e quello di tutte le altre me che mi hanno preceduto.
ho finalmente accettato la mia passione, in nome di tutte le altre me che hanno lottato per poterla vivere alla luce di questo mio giorno.
ho finalmente accettato senza domande il mistero di quella devozione che ora so essere il patrimonio comune, la potenza che muove il mondo.
Guardatemi e accettatevi, in una linea a matita ci siete anche voi che, critici, mi osservate come fossi opera d’arte.
Guardatemi e accettatemi, sono diversa, come lo siete voi fra voi.
Unica, come lo siete voi fra voi.
Ricordatevi di me, di voi, dell’oggi e di questo antico profumo di violetta, che sia per voi pensiero fisso.

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Autobiografia di un pensiero fisso: dall’opera alla poetica
“Autobiografia di un pensiero fisso” è l’opera che racchiude il senso della ricerca artistica che Viola Di Massimo ha iniziato dal 1986 con lo studio del nudo femminile.
La voce narrante del testo che accompagna l’opera proviene dalla protagonista delle opere, un disegno a matita appena nato che inizia a raccontarsi, prendendo sempre più vita come individuo vivo in continua ricerca di una propria forma stilistica, nel segno e nel pensiero.
Tale studio, nel susseguirsi degli anni si è caricato, ad ogni lavoro realizzato, di significati personali, autobiografici, collettivi.
Il femminile nella poetica dell’artista oltre ad estetica e movenze, come spesso l’osservatore all’impatto è in grado di cogliere, è un contenitore universale di momenti, idee, confessioni, crescita, battaglie perse, vinte, ancora da affrontare.
Diviene passato, presente e movimento continuativo, quel movimento che muove ed ha sempre mosso il mondo nel susseguirsi delle generazioni.
Il femminile, nella ricerca dell’artista è evoluzione.
La juta usata come base per quest’opera, trovata in una vecchia casa di campagna anni addietro, è stata notata dall’artista per la trama, il colore, l’usura e soprattutto per i due ritagli di stoffa usati come rattoppo. Due rammendi eseguiti con stoffe diverse fra loro che ricordano i vestiti di un tempo: il vestito di tutti i giorni e quello della domenica appartenenti, ormai, ad un’età preconsumistica. Ecco quindi che questo sacco di juta non diviene solo una base su cui lavorare ma ne è anche lui protagonista, trama fondamentale e significativa, proprio perché già ricco di storia.
Il colore ricorda la terra; quella da cui nasciamo, quella che è stata lavorata da altre noi ma soprattutto, ricorda la meticolosa pazienza di chi aveva poco e recuperava tanto, per salvare e risanare un qualcosa che probabilmente, avrebbe contenuto ricchezza come, forse, grano.
Ecco quindi il primo fondamentale simbolo di quest’opera, la juta, che unita con altri sacchi, lascia intravedere cuciture che ricordano cicatrici: segni indelebili di fatica, lavoro, soddisfazione, violenza, nascita, lotta e quindi, evoluzione.
Attentamente posate e cucite solo nel lato superiore troviamo delle stampe su stoffa di disegni dell’autore. La differenza delle due stoffe usate, damascata e grezza, è stata pensata per definire le tipologie di donne dalle diverse estrazioni sociali ma riunite nella stessa battaglia in cui il “campo” comune, appunto, è la juta.
Quest’opera quindi è composta da tre piani più il “piano” atmosferico: lo spazio in cui viene adagiata (un’opera-messaggio che può trovarsi ovunque), la base di sacco che accoglie l’atto dell’opera, le stoffe su cui sono state stampate 32 immagini di donne fra i vari disegni a matita, e l’aria che muove queste ultime.
Ogni immagine è stata accuratamente incorniciata da merletti per lo più antichi e realizzati a mano, trovati anch’essi in una vecchia casa come eredità da precedenti generazioni: ogni rappresentazione è un frammento di vissuto, uno scatto, un atto fondamentale da impreziosire con un merletto di storia e onorare così le donne che hanno vissuto prima dell’artista.
Le immagini sono state fissate solo nella zona superiore perché libere di potersi muovere al vento, questo è stato fondamentale per potenziare e dare il senso di un movimento che è, è stato, simbolo di un pensiero continuativo e lo sarà sempre.
Negli spazi rimanenti, oltre le 32 immagini, sono stati cucite ulteriori cornici di merletto, di juta e tre elementi di diverso colore sempre in stoffa: due diverse tonalità di rosso e il viola, su cui sono stati inseriti tre simboli: costrizione, passione, devozione.
Questi tre “sentimenti” sono stati ciò che hanno fatto muovere il mondo, per questo l’artista ne dà rilevanza.
In alto a destra il primo simbolo: la gabbia, la prigione rossa di merletto che simboleggia la bellezza in cui la donna per cultura e per paura si è sempre imprigionata, costretta, rimanendone spesso schiava. Questo simbolo è spesso rappresentato (nei disegni, nei dipinti ad olio e nelle performance), dalle collane nere che spesso assumono una connotazione diversa da quella di un semplice “abbellimento”: un peso da saper sostenere.
In alto a sinistra si può notare il rosso dell’amore e la passione su cui è adagiato un cuore nero velato, le due facce dell’amore: bene e male, gioia e sofferenza, protetto dal -necessario- velo della saggezza.
In basso al centro la devozione: un rettangolo di velluto viola su cui è adagiato un merletto realizzato a tombolo che, logorato dal tempo, crea una croce.
Il mistero della devozione.
Quella devozione che alcuni di noi non capiranno o accetteranno mai ma che a volte, forse spesso, è stata salvifica.
Tutta la superficie è stata cosparsa dal profumo di violetta.
La violetta è per l’artista il profumo più semplice, quello che rappresenta la sensualità naturale, vera, non corrotta, da accettare senza resistenze perché è unica in ogni individuo e senza tempo.
Quest’opera è l’eterno ringraziamento a tutte le donne, ma anche uomini, che ci hanno preceduto e che hanno lottato per conquistare un pezzo di libertà in più.
Se Viola Di Massimo oggi è un’artista e un individuo libero, lo deve soprattutto a loro, a chi l’ha preceduta come chiaramente nello scritto è detto: “…ho finalmente accettato la mia passione, in nome di tutte le altre me che hanno lottato per poterla vivere alla luce di questo mio giorno”.
Autobiografia di un pensiero fisso, nonostante sia quasi mono-tono, comprende tutte le cromie usate dal 1986 ad oggi nei dipinti e disegni.
Racchiude il Cadmio di passione e violenza usato spesso nel grande copricapo e nelle calze, il Carminio delle tende di teatro che dividono lo spettatore dal protagonista, senza sapere mai davvero quale sia uno o quale l’altro.
Racchiude i Gialli Cromo Scuro che illuminano la quasi sempre presente Terra di Siena in grado di tirar fuori le nascoste Terre d’Ombra, i Grigi di Payne della notte, i Blu di Prussia di tempesta, il Vermiglione di euforia, gli impenetrabili Bianchi di Titanio, i Neri Marte di oblio ed i Porpora di mistero.
Ma custodisce anche il segno da cui tutto nasce, la sintesi, i fotogrammi di una vita vissuta, ogni atto subito ed eseguito, ogni azione, ogni gesto, ogni passo fatto nella propria esistenza per rispettare la fedeltà in se stessi.
Con tutto ciò che ne consegue: insidie date da molli pavimenti in continuo movimento che nascondono infiniti vuoti vertiginosi dove la protagonista deve essere in grado di trovare l’equilibrio per proseguire oltre, nella scena successiva; collane così lunghe da sembrare a volte catene di schiavitù e sedie vuote di attese perenni.
La stessa poetica si amplifica con le performance teatrali ed i monologhi scritti dall’artista, in cui le parole assumono, esattamente come un dipinto, precise configurazioni e cromie.
Le video-performance sono quindi spesso il prolungamento dei monologhi scritti, interpretate da se stessa sperimentando il proprio corpo come mezzo artistico, o interpretate da attori disposti a condividere e “sposare” il monologo-pensiero che Viola Di Massimo propone ed esprime attraverso la scrittura.
Questi testi, promossi spesso da “Propaganda per la Civilizzazione delle Masse” (un movimento artistico creato nel 2007 da Viola Di Massimo come verso alla Pubblicità Progresso), a differenza dei dipinti certamente più intimistici, affrontano la problematica collettiva da cui l’artista si sente coinvolta nel suo vivere, come: “Favola per un Silenzio d’aprile” una fiaba tanto colorata quanto nera, nata dopo il terribile terremoto in Abruzzo.
La “lettera d’Amore contemporanea”, un’apparente storia d’amore ma in realtà una riflessione sulla fedeltà in se stessi e l’importanza di seguire i propri ideali; oppure “Indifferentemente Indifferenti”, un brevissimo spot in cui si racconta che il disagio può appartenere a chiunque e, volendo, anche l’indifferenza.
Il cortometraggio “Lettera d’Amore da A.P. ma… sono di Destra o di Sinistra?” nato da uno studio umano sulle persone che fanno politica o tentano di farla, ragiona sulla sopraffazione data dalla propria debolezza. Ancora “Lettera d’amore da G.A.Y” in cui ad essere oggetto di riflessione è la discriminazione, la nuova discriminazione… così nuova che potrebbe ricongiungersi a quella poco più antica, conosciuta da tutti…
I testi quindi sono ciò che non si può dire con un dipinto ma certamente si può mostrare come tale: nei suoi video o performance teatrali tutto è esattamente come in un dipinto ma… si muove; difatti, Viola Di Massimo crede a tal punto in tutto ciò, da rendere reale ogni elemento dopo averlo dipinto (collane, cappelli, sedie, tavoli, pavimenti, tende rosse…), perché è convinta che lo spettatore si debba sentir catturato da un mondo nuovo camminandoci dentro, un mondo nato da una mente diversa.
E’ proprio per questo motivo che il suo studio, le esposizioni, le sue performance teatrali ed i video, sono opere in movimento, in cui lo spettatore diviene, anche solo per poco, opera d’arte.
Ogni artista ha la propria ossessione, per Viola Di Massimo, quindi, è il femminile nel senso più ampio a cui potrà arrivare.
“Autobiografia di un pensiero fisso” nasconde la verità dell’autore in cui: non è la singola creazione prodotta dall’artista ad essere opera d’arte ma è lo stesso artista che, modificando giorno dopo giorno la propria vita e le proprie scelte per seguire l’intimo impeto creativo, diviene esso stesso una delle più lunghe, difficili e sofferte performance in divenire.
tecnica: vecchi sacchi di iuta cuciti fra loro, 32 immagini di disegni a matita stampati su stoffa grezza e damascata. Merletti antichi realizzati a mano, profumo di violetta.
Misura: 190×230 cm