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Arte ed e-commerce: una scelta giusta o no per un artista?

arte e e-commerce viola blogart

Da poco hai realizzato il tuo nuovo sito, arteviola.com, perché hai deciso di rinnovarlo e completarlo con un e-commerce?

La scelta di realizzare un sito nuovo è stata alquanto “dolorosa” perché dal 2002 gestivo già il mio sito violadimassimo.com. Avevo imparato quel linguaggio html necessario alla gestione e bastava così. Ma in 15 anni le cose cambiano e me ne sono resa conto (forse anche tardi), dai social, dalle diverse risposte reali e virtuali che ho avuto ogni volta che aprivo il mio studio al pubblico e da quanto si vive e si agisce nella vita virtuale: tanti “partecipo” su di un evento postato, grandi abbracci virtuali se qualcuno segnala che è a letto con la febbre, o addirittura frasi di conforto da persone sconosciute per chi ha perso da poco una persona cara e divulga il proprio dolore su internet. Virtualmente la partecipazione alla vita degli altri e il vissuto della propria, è senza eguali. Un amore smisurato e un’attenzione senza limiti, (se non quelli reali).

La scissione tra reale e virtuale è sempre più sottile. Gli amici reali si vedono poco e si sentono attraverso whatsapp, facebook ecc. , quelli virtuali sono tanti, infiniti, ognuno ha qualcosa da dire ed ognuno arreda la propria solitudine con più persone possibili. E quindi? si fa l’amore virtuale, ci si fidanza prima sul web e poi forse anche realmente, si fa la spesa su internet, cibo, vestiti, scarpe, divani e anche… perché no? opere d’arte. E’ questo il punto, è questa la nuova comunicazione. Possiamo fare mille riflessioni ancora, ma alla fine, dopo mille filosofie e congetture, mi ci sono infilata anche io, con grande curiosità e addirittura con un e-commerce.

Cosa intendi quando dici che è stato “doloroso” realizzare questo sito?

Prima cosa perché avevo davvero paura che in effetti fosse un sito troppo “commerciale” e questo mi infastidiva, come se perdessi eleganza, ma poi non ho fatto altro che rifare una scelta già fatta molto tempo fa, ma con mezzi diversi. Quando scelsi di vendere le mie opere fu difficile. Era il 1995 e decisi che era ora: se le avessi tenute tutte non avrei potuto fare questo lavoro e non avrei potuto portare avanti la mia ricerca come desideravo. E quindi le vendo (anche se mi piace pensare che siano adottate), perché la vita non costa solo emozioni, grandi o piccole filosofie, e devastanti ispirazioni; ma anche denaro che serve per vivere, per acquistare materiale che genererà nuova arte, nuove emozioni, nuova tragedie, ispirazioni, desideri e terrori da rappresentare.

Non c‘è nulla di nuovo tranne per il mezzo: il mercato ufficiale dell’arte è un sistema che si basa da sempre sul mercato, sull’aspetto commerciale. Un prodotto, nel caso specifico un’opera, viene venduta, oppure rivenduta nel mercato secondario. Quindi i due termini “mercato” e “arte” si uniscono. Bisogna solo far pace con la parola “commerciale” (ho duvoto far pace…), perché tale termine non implica un prodotto di facile fruizione o un qualcosa di scadente qualità, ma di un pezzo, anche pregiato e nobile nelle intenzioni, che può essere venduto.

E ancora, doloroso, per i mesi davanti ad un pc dalla mattina fino alla sera tardi per lavorare sul sito staccandomi dal mio lavoro principale. Quando si lavora sulla divulgazione o su tutto ciò che circonda questo lavoro, a volte si vive troppo a lungo fuori di sé, e ricominciare ad osservarsi per poter creare, non è per nulla facile perché, in principio, incombe solo il grande vuoto.

Quanto ci si deve “scollare” da se stessi per divenire imprenditore, appunto, di se stessi?

Divenire il proprio imprenditore non è per nulla semplice perché, semplicemente, non è il mio lavoro e non lo eseguo certamente a regola d’arte.

Avere a che fare con la divulgazione, l’organizzazione di aventi, la gestione del sito porta via tempo ed energie: bisogna divenire altro esattamente come un bravo attore. Imparare il necessario, vestirsi da imprenditore, interpretarlo come al teatro o in una performance. Provare a pensare da imprenditore e studiare il necessario per poter fare questo lavoro al meglio. Il tempo per la creazione è certamente ridotto, e ci sono molte difficoltà, ma i vantaggi sono molti: sopra ogni cosa la “libertà”, il potere decisionale, e sapere a chi andranno le opere, conoscere personalmente l’acquirente e scoprire le motivazioni che lo hanno avvicinato all’opera. Ho ascoltato discutere la sfumatura del colore predominante usato per un solo fatto estetico, ho visto persone ancora imbarazzarsi davanti al nudo femminile e guardare altrove, ma poi esserne attratto e acquistarlo come volersi riconoscere in una naturalezza mai acquisita. Ho visto piangere e commuoversi davanti ad un quadro, e questo per me è impagabile… e poi c’è chi spera “bonariamente” che morirò presto perché c’è ancora la convinzione che gli artisti dopo morti saranno più che famosi (e si chiede anche quanto varrà l’opera dopo la dipartita…).

Ma chi si riconosce nell’opera ha qualcosa in più per me e non posso nascondere che appaga il mio ego d’artista.

Il collezionista Giuseppe Panza asseriva: “Una collezione è il ritratto più intimo del collezionista”. E questo per me dice tutto.

Essere fuori di sé implica un “dentro di sé” cosa intendi esattamente?

Per essere artisti, almeno per il mio personale modo di vivere, bisogna saper cadere dentro se stessi, lasciarsi andare nell’immenso del sé senza aver paura di cosa si troverà o… non troverà.

La tela, la juta, l’argilla ed ogni supporto o mezzo che attrae l’ispirazione diventano me stessa: divengo legno, pietra, ardesia, juta… divengo ogni cosa che mi renderà complice della materia divengo bitume, a volte credo che i miei capelli abbiano quel colore e colino come il bitume sulla tela. Sono nuda con la naturalezza delle donne nelle mie opere che vivono tra le venature del legno vissuto secoli, fra le trame di un lenzuolo antico cucito meticolosamente a mano,. Sono nella memoria delle pietre, e subisco metamorfosi come l’argilla. E’ come scendere nelle viscere della terra e più si va giù e più è buio e bisogna abituarsi a “vedere”. Quando si cade dentro se stessi si è solo senso ed essenza, ci si fonde con il tutto. Si trova il tutto e il nulla da riempire, si trova il non senso di ogni cosa, la densità ed il colore di ogni sentire, la trasformazione di ogni avvenimento vissuto in prima persona o indirettamente.

E’ questo che l’artista fa (ma vorrei dire è): raccoglie, trasforma e rimanda fuori, è pura alchimia: ed i questa continua trasformazione bisogna tenere sempre a mente che il tutto é una complessa e pericolosa continua ricerca di equilibrio attraverso un perenne conflitto.

Ed ora hai finito con programmazioni e razionalità?

Finalmente sì, l’inizio è stato lento e timido: dormivo (e dormo) con una matita nel letto perché sono convinta che il segno, il gesto, (sintesi primitiva di ogni forma d’arte), possa entrare meglio nella mia essenza. Ho iniziato con la preparazione accurata di pezzi di legno portati dal mare e dal bosco, ma in principio li guardavo con sospetto e paura di guardarli negli occhi, perché quegli occhi sono i miei, e si stavano affacciando al mio vuoto nato dal pieno di un lungo lavoro razionale.

Ma poi accade sempre che in un momento senza tempo, orario o connotazione, io mi fonda nuovamente con la materia e non c’è paura, vuoto, o razionalità che possa distrarmi dall’intima trasformazione.

Ricordi la tua prima trasformazione?

Ho lavorato su varie trasformazioni nella mia vita, iniziai precisamente nel 1986 il lavoro sulla trasformazione del corpo femminile: avevo questa idea di combattere con tutta me stessa quella figura che dicevano perfetta che ci imponeva la società e che produceva eserciti di anoressiche e bulimiche. Ho iniziato la trasformazione semplicemente dalla forma, quasi senza rendermene conto. Le figure femminili erano rappresentate da donne dalle curve esagerate e scomposte, ma dalla naturalezza che solo la diversità dell’essere può avere. Non mi ero resa conto, all’inizio, che sarebbe stata una battaglia lunga e duratura che sarebbe andata oltre la forma, ancora combatto per onorare la diversità perché, la diversità, è una ricchezza che ci rende tutti uguali.

Vorrei chiederti l’ultima volta che ciò è accaduto, che hai “trasformato”.

L’ultima mia trasformazione è stata l’opera “The Monster in the box” in cui ho rappresentato la solitudine attraverso la valanga di parole che l’umanità è capace di “vomitare” all’ascoltatore riducendolo a palco su cui esibirsi, senza tregua, ritegno o rispetto. E’ stato anche questo un lavoro molto intenso, sia tecnicamente che interiormente. Ho usato l’argilla, una materia sensuale e spietata, si trasforma sotto le dita e ancora non sono certa che la forma creata sia data dalla mia volontà o dalla creta che decide di prendere da sola la forma che desidera. Ma mi ha appagata anche dal punto di vista intrinseco perché l’arte è ancora necessaria per pensare, far pensare e “risolvere”.
Ne sono certa: L’arte, solve et coagula.

di Ernesto Ercolani